LAVORO, SVILUPPO SOSTENIBILE, ECONOMIA SOCIALE: LE BASI PER IL RILANCIO DEL PAESE

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Il 18 aprile 2023 l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione finalizzata al riconoscimento internazionale dell’Economia Sociale e Solidale. Uno strumento per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile attraverso l’innovazione sociale e inclusiva. Tra i promotori, naturalmente, c’è anche l’Italia. Gli Stati membri hanno il compito di promuovere e attuare i contenuti della risoluzione.

La “ratio” della decisione è quella di pensare al termine “economia” attribuendole il fine ultimo di crescita e sviluppo delle persone, delle comunità e dei territori. Detto in altri termini, l’economia sociale e solidale può contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile previsti nell’Agenda 2030, in particolare per quanto riguarda le seguenti tematiche: occupazione, lavoro dignitoso, istruzione e formazione, fornitura di servizi sociali, promozione della parità di genere, emancipazione delle donne, promozione del dialogo sociale, crescita inclusiva e sostenibile, protezione dell’ambiente, creazione di partenariati e reti a livello locale, nazionale e internazionale, promozione della governance partecipativa e dei diritti umani.

La Risoluzione riconosce inoltre che l’imprenditoria sociale può essere un fondamentale contributo per ridurre la povertà e supportare l’empowerment delle donne, dei giovani e delle persone con disabilità (anche nelle zone più svantaggiate), rafforzando la loro capacità produttiva, producendo beni e servizi accessibili a tutti. L’economia sociale e solidale contribuisce a una crescita economica più inclusiva e sostenibile, trovando un nuovo equilibrio tra efficienza economica e resilienza socio-ambientale. È capace di promuovere il dinamismo economico, incoraggia la transizione digitale e sostenibile, promuove la protezione sociale e ambientale e l’emancipazione sociopolitica degli individui.

Obiettivi ambiziosi e nobili.

Qual è l’attuale situazione in Italia?

LAVORO TRA LUCI E OMBRE

I dati Istat dicono che in Italia l’espansione occupazionale prosegue per il terzo anno consecutivo: +1,5% nel 2024, + 352.000 unità. E ciò ha portato il tasso di occupazione al 62,2% nel corso dell’ultimo anno. Se poi si considera il periodo 2019–2024, si osserva che il numero di occupati è cresciuto del 3,8%, come in Germania ma meno che in Francia e Spagna. Tuttavia l’Italia resta all’ultimo posto tra i 27 Paesi dell’Unione Europea per tasso di occupazione, con 15,2 punti di distacco dalla Germania (77,4%), 6,8 dalla Francia (69%) e 3,9 dalla Spagna (66,1%). Il nodo vero è la qualità dell’occupazione. L’80% della crescita è commisurata all’incremento degli occupati over 50, che rappresentano oggi il 40,6% dell’occupazione totale (+12,5% rispetto al 2019). Al contrario, gli occupati 35-49enni, che costituiscono il 36,9% del totale, rimangono oltre 500.000 unità sotto i livelli del 2019, a fronte di un calo di 1,4 milioni di residenti in questa classe d’età.

Influiscono, e parecchio, le dinamiche demografiche: la forza lavoro invecchia (come la popolazione) ed emerge l’assoluta incapacità del sistema di assorbire e valorizzare il capitale umano giovane. Non è per caso che l’Italia registra il più basso tasso di occupazione giovanile in Europa: 34,4%, circa 30 punti percentuali in meno rispetto alla Germania) e uno dei più alti tassi di NEET, acronimo con il quale si individuano i giovani che non studiano e non lavorano. Siamo al 15,2%, 4,2 punti sopra la media dell’Unione Europea. Peggio di noi soltanto la Romania.

Per quanto riguarda i più giovani, i divari nei tassi di occupazione rispetto alla media Ue sono ampi soprattutto tra diplomati e laureati. Anche se una timida inversione di tendenza c’è. L’aumento degli occupati nel 2024 riguarda principalmente laureati (+3,7%) e diplomati (+2,2%), mentre si registra una diminuzione tra chi ha al massimo la licenza media (-1,8%).Vuol dire che sta crescendo la capacità di assorbire i lavoratori con livelli di istruzione medio-alti, senza però garantire sempre un’effettiva valorizzazione delle loro competenze.

Un aspetto particolarmente critico riguarda la distribuzione per età: se negli altri Paesi i giovani under 40 svolgono professioni più qualificate degli over 40, in Italia questa situazione non esiste. E si innesca un meccanismo che disincentiva i profili più qualificati. Da qui la “fuga dei cervelli”.

Sul versante contrattuale, i dati mostrano un aumento significativo degli occupati con contratto a tempo indeterminato, che nel 2024 raggiungono quota 16 milioni (+3,3% rispetto all’anno precedente), mentre i dipendenti a termine calano a 2,8 milioni (-6,8%, pari a circa 203 mila unità in meno). In termini relativi, i lavoratori a tempo indeterminato rappresentano quindi l’85,3% del totale dei dipendenti, mentre quelli a termine il 14,7%. Questo aumento dell’occupazione permanente è un segnale positivo. Il fenomeno è trainato dall’espansione dell’occupazione nella fascia over 50 nella quale i contratti stabili sono generalmente più diffusi. Ma i dati Istat dicono pure altro. E cioè che nonostante questa tendenza positiva, resta elevata l’incidenza dell’occupazione in condizioni di fragilità contrattuale, che colpisce soprattutto giovani e donne. Solo il 63% degli occupati con più di 15 anni ha un impiego “standard” (a tempo pieno e indeterminato). Oltre un terzo dei giovani tra i 15 e i 34 anni e quasi un quarto delle donne lavora con contratto a termine o in part-time involontario. Tra gli occupati under 35, il 28,1% ha un contratto a tempo determinato e il 5,9% lavora part-time per mancanza di alternative; tra le donne occupate, il 13,7% è in part-time involontario e il 4,3% combina questa condizione con un contratto a termine. Il nodo vero è esattamente questo. Siamo in presenza di quelle che si definiscono come forme di vulnerabilità lavorativa, che si riflettono sulle retribuzioni, inevitabilmente basse a causa dell’incidenza della temporaneità dell’impiego e della bassa intensità oraria. E senza girarci troppo intorno, un mercato del lavoro con un’elevata precarietà e un diffuso part time tende a determinare altresì una dinamica dei salari negativa. Tra il 2008 e il 2024 i salari reali medi in Italia sono diminuiti di 9 punti percentuali, mentre in Germania e Francia si è assistito ad un incremento, rispettivamente, dell’14% e del 5%. Secondo il rapporto OCSE sull’occupazione, l’Italia risulta essere il Paese che ha registrato la maggiore caduta dei salari reali nell’area OCSE.

La dinamica dei salari è stata colpita dallo spostamento dell’occupazione verso i servizi a bassa qualificazione e dalla mancanza di investimenti in nuove attività economiche. Il fenomeno del lavoro povero è molto diffuso in Italia. Secondo un recente studio, pubblicato dall’Ufficio Economia della Cgil e basato sui dati Inps del 2023, “almeno 6,2 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato guadagnano meno di 15.000 euro lordi all’anno, equivalenti a circa mille euro netti mensili. Si tratta di un dato che coinvolge il 35,7% della forza lavoro privata”. Ancora: “Complessivamente, i lavoratori con redditi inferiori ai 25.000 euro lordi all’anno sono 10,9 milioni, il 62,7% del totale. Pur registrando una leggera diminuzione rispetto al 2022 (quando erano il 65%), queste cifre rimangono preoccupanti e indicano quanto sia diffusa la condizione di lavoro povero in Italia. A peggiorare ulteriormente il quadro, intervengono altri due fattori: la bassa retribuzione oraria e la discontinuità lavorativa. Circa 2,4 milioni di lavoratori dipendenti ricevono meno di 9,5 euro lordi all’ora, mentre l’83,5% dei rapporti di lavoro conclusi nel corso del 2023 ha avuto una durata inferiore a un anno, con il 51% di questi che non ha superato i 90 giorni. Altro problema rilevante è rappresentato dai ritardi nei rinnovi contrattuali. Secondo l’Istat, a dicembre del 2023 ben 6,5 milioni di dipendenti erano in attesa di rinnovo, con tempi medi di passaggio da un contratto scaduto a quello successivo di circa 32,2 mesi”.

Possiamo dire che purtroppo oggi il lavoro non è più la soluzione per lasciarsi alle spalle la povertà, non è più la soluzione per attivare l’ascensore sociale, non è più la soluzione per… progettare. Mentre in passato i genitori avevano la certezza che i figli sarebbero stati meglio di loro, oggi è il contrario: c’è purtroppo la consapevolezza che i figli staranno peggio. A meno che non vanno all’estero. Ma in questo modo in Paese perde i talenti migliori. Non è una questione legata a chi governa, il punto è che la crisi del mondo economico e occupazionale italiano è strutturale. Quali le possibili soluzioni? Garantire salari minimi dignitosi attraverso la contrattazione collettiva o il salario minimo legale, aumentare la vigilanza sul rispetto dei contratti e dei minimi salariali, introdurre strumenti di integrazione al reddito per i lavoratori poveri (in-work benefit), promuovere la formazione continua e il miglioramento delle competenze. Ma non è semplicissimo se pensiamo alle congiunture economiche (i dazi) e al contesto geopolitico (le guerre).

SVILUPPO SOSTENIBILE

Per sviluppo sostenibile si intende un modello di crescita che mira a bilanciare le esigenze economiche, sociali e ambientali, garantendo un futuro equo e vivibile per tutti. L’orizzonte temporale e il punto di arrivo sono rappresentati dall’Agenda 2030 dell’Onu. Pochi giorni fa il presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli, alla presentazione del Rapporto Sdgs 2025, ha detto: “In Italia c’è l’esigenza di un’accelerazione. A distanza di 10 anni dal varo dell’Agenda 2030 e di 5 alla scadenza temporale individuata i progressi pur rilevanti in molti casi non risultano all’altezza delle aspettative. Il percorso dell’ultimo decennio è stato infatti segnato da shock esogeni, la crisi pandemica, l’aumento delle tensioni geopolitiche e dei conflitti, la spirale inflazionistica innescata dall’incremento dei prezzi dei prodotti energetici che hanno condizionato negativamente i percorsi”. Il punto è questo: oggi ogni progetto e ogni opera pubblica viene pensata e “scaricata a terra” seguendo le indicazioni di un basso impatto ambientale. Ma se poi, come successo negli ultimi cinque anni, si scatenano guerre ed esplode una pandemia di quelle proporzioni, come si fa a correre ai ripari?

ECONOMIA SOCIALE

Da questo settore arrivano segnali positivi, certificati dagli ultimi dati Euricse. In Italia è una realtà che conta più 398.000 organizzazioni, impiega oltre 1,5 milioni di persone e coinvolge più di 4.660.000 volontari. Gianluca Salvatori, Segretario Generale di Euricse, ha spiegato: «Veniamo da un lungo periodo in cui la tendenza era semplificare e ridurre le forme d’impresa a quelle di tipo capitalistico. La riscoperta della pluralità delle forme impresa è relativamente recente. Non perché non esistessero queste forme di imprese prima, ma perché nell’attenzione pubblica e in quella dei policy maker il tema dell’economia sociale non occupava un posto tra le priorità». Secondo i dati di Euricse, il 76,9% delle oltre 398 mila organizzazioni dell’economia sociale, circa 306.408, ha forma di associazione. Il 9,7% ha forma di cooperativa, diversa però da quella sociale, il 7,6 ha altre forme giuridiche, mentre il 3,7% (14.670) ha forma di cooperativa sociale.

Sempre Salvatori: «Queste forme organizzative producono una occupazione, che ha due caratteristiche. La prima è che danno lavoro anche a fasce che normalmente il mercato del lavoro tende a sottovalutare o ad escludere. È un’occupazione che include molto di più rispetto a quanto fa un’impresa ordinaria. In questo quadro ci sono organizzazioni che hanno come scopo proprio l’integrazione lavorativa e alcune di queste nascono con l’obiettivo di dare lavoro a chi è stato espulso o a chi è ai margini del mercato del lavoro. È un aspetto che corrisponde alla missione sociale di queste organizzazioni che hanno come scopo l’integrazione di persone deboli. Anche le organizzazioni che non si pongono come obiettivo l’integrazione lavorativa di persone fragili, hanno comunque nell’economia sociale la caratteristica di avere un livello di occupazione più stabile. Qui vale il criterio per cui nella crisi si difende la posizione di lavoro e non si difende la posizione degli investitori. Sono organizzazioni che nella crisi non licenziano, ma semmai riducono gli utili per mantenere i posti di lavoro. Quando c’è una crisi i livelli occupazionali delle imprese cooperative e in generale delle imprese sociali vengono mantenuti, mentre i livelli occupazionali delle imprese ordinarie diminuiscono, perché si tutela il capitale anziché il lavoro».

In conclusione sono tematiche complesse che non sempre sono destinate a interagire. Abbiamo davanti la partecipazione ad Osaka 2025, che indubbiamente rappresenta un’opportunità fondamentale per le aziende italiane. Per quello che ci riguarda, però aggiungiamo che l’occupazione, lo sviluppo sostenibile, l’economia sociale sono concetti che possono essere declinati soltanto mettendo al centro del sistema le micro, le piccole e le medie imprese. Perché sono loro a rappresentare la spina dorsale di un Paese che ha sempre guardato alla solidarietà come concetto chiave dell’economia. ConfimpreseItalia lo fa quotidianamente. Ma certo occorreranno provvedimenti legislativi, risorse finanziarie e progetti concreti. In questi anni le risorse del Pnrr hanno consentito degli spazi di manovra importanti, così come il Giubileo. Ma dobbiamo porci il problema del dopo, perché le sfide da vincere sono quelle della quotidianità. Infine, è fondamentale fare sistema. Vuol dire che il Governo, le associazioni di categoria, le forze sociali e gli imprenditori devono lavorare in sinergia. Ma questo concetto va esteso pure agli istituti di credito. Ha detto il ministro Giancarlo Giorgetti: “Il governo e il Mef in questi anni hanno fatto la loro parte con la disciplina di bilancio che ha portato al calo dello spread e al miglioramento del rating, elementi che hanno avuto effetti positivi per le banche e quindi ora mi attenderei che gli istituti di credito approfittino del quadro mutato e tornino a fare le banche, a riconcentrarsi sull’attività di intermediazione e finanziamento dell’economia guadagnando sul margine di interesse e meno sulla gestione patrimoniale”.

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