Parlare di economia sociale e di mercato in un contesto istituzionale come quello del Ministero dell’Economia e delle Finanze è un evento per chi da sempre si occupa di finanza inclusiva. L’occasione di incontro, promossa dall’Ente Nazionale per il Microcredito,
è stato il convegno “Il messaggio sociale del Giubileo” tenutosi nella sala dedicata
all’ex governatore e presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Un evento storico che ha visto per la prima volta un Cardinale ospitato all’interno del Palazzo delle Finanze, per parlare del messaggio sociale del Giubileo. Un’occasione unica in cui la Chiesa e le istituzioni economiche si sono incontrate per riflettere insieme sull’economia sociale di mercato, l’ispirazione di quelle politiche di inclusione e sviluppo sostenibile che l’Italia sta sostenendo attraverso le azioni concrete messe in atto dall’Ente Nazionale per il Microcredito.
Di seguito riportiamo un estratto degli interventi del presidente ENM, Mario Baccini, di sua Eminenza, Baldassarre Reina e del ministro Giancarlo Giorgetti, che hanno spaziato con i loro interventi dalla dimensione spirituale e biblica, alle questioni economiche e sociali, fino alle sfide politiche internazionali.
L’intervento del presidente Baccini è teso a raccontare come il Giubileo sia l’espressione più chiara delle politiche di accoglienza e sostegno alla persona, in senso sociale ed economico sin dall’antichità. In questo ambito ha sottolineato come il microcredito sia strumento concreto per combattere povertà e disuguaglianze, in linea con il messaggio di libertà e rinnovamento che il Giubileo rappresenta.
Monsignor Baldassarre Reina, Vicario Generale della Diocesi di Roma, ha portato il cuore della riflessione sulla parola di Dio, evidenziando come il Giubileo sia un momento di liberazione, di restituzione e di speranza, radicato nella tradizione biblica e religiosa. Le sue parole sono un invito a riflettere sul significato profondo di giustizia, di pace e di fraternità, valori che devono guidare le azioni quotidiane e le scelte politiche.
Infine, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti ha offerto uno sguardo più pratico e concreto sul rapporto tra economia, tempo e giustizia. Ha evidenziato come il concetto di tempo sia centrale nell’economia e come la gestione del debito, la durata del capitale e la responsabilità siano temi strettamente collegati ai principi di giustizia e di sostenibilità. Ha ricordato, inoltre, che il Giubileo invita a riflettere sul valore del “dare gratuitamente” e sulla necessità di un’economia che non si limiti al profitto immediato, ma che guardi al futuro con fiducia e responsabilità.
Insieme, questi interventi, creano una dimensione diversa del Giubileo che viene identificato non solo come un evento spirituale, ma come un’occasione di rinnovamento sociale, economico e politico.
È un cantiere aperto, che richiede il contributo collettivo, per costruire un mondo più giusto, solidale e speranzoso.
INTERVENTO DI MARIO BACCINI, PRESIDENTE ENTE NAZIONALE PER IL MICROCREDITO
Il senso di questo evento è di portata storica. Desidero, quindi, soffermarmi brevemente su alcuni aspetti legati al microcredito e al significato sociale del Giubileo.
Il Santo Padre, in diverse encicliche, ha richiamato l’attenzione sul microcredito come strumento potente nella lotta contro la povertà e l’esclusione finanziaria. L’Italia è stata tra i primi Paesi al mondo a rispondere all’appello lanciato dalle Nazioni Unite nel 2005, su iniziativa dell’allora Segretario Generale Kofi Annan, per promuovere il microcredito come mezzo di contrasto all’estrema povertà. In quegli anni ricoprivo il ruolo di Sottosegretario agli Esteri e l’Italia, attraverso il Ministero degli Affari Esteri, raccolse quell’appello. Con una serie di interventi legislativi, fu istituito il primo ente pubblico nazionale dedicato alla promozione del microcredito in risposta a quell’appello delle Nazioni Unite.
L’Italia fu tra i primi Paesi a dare una risposta operativa, un indirizzo mondiale e con grande successo abbiamo portato avanti degli strumenti inediti. Non a caso, oggi realizziamo attività di capacity building in diversi Paesi del mondo. Il Parlamento e i governi che si sono succeduti hanno progressivamente rafforzato questo ente pubblico, con l’obiettivo di offrire una possibilità concreta a chi è considerato “non bancabile”: persone che, pur avendo un’idea, un progetto o una visione per il proprio futuro, non riescono ad accedere al credito per mancanza di garanzie. Sappiamo bene che il sistema bancario, da solo, non finanzia un’idea priva di solide garanzie.
Lo Stato è quindi intervenuto per sostenere coloro che hanno un’idea, ma non le garanzie necessarie. L’Ente Nazionale per il Microcredito, su preciso indirizzo del Governo, ha studiato meccanismi innovativi, in collaborazione con il Fondo Centrale di Garanzia per le PMI, che oggi permettono a tanti cittadini di avviare microimprese, grazie a una copertura dell’80% del rischio.
Questo è il senso del nostro lavoro, ma l’Ente Nazionale per il Microcredito opera anche in molti altri ambiti, all’interno di un più ampio progetto di economia sociale di mercato. La scelta politica di fondo è stata quella di aderire convintamente a un modello che mira alla soddisfazione dei bisogni della persona umana, senza incentivare consumi superflui o desideri indotti. Soddisfare i bisogni reali: questo è il vero discrimine tra un’economia sociale e un’economia dominata dal solo profitto, questo è il vero bipolarismo finanziario.
Da un lato, c’è chi condivide questa vocazione sociale dell’economia; dall’altro, l’automatismo del mercato, che ha come unico obiettivo il profitto. La politica, in questo contesto, deve rappresentare un punto di equilibrio tra i poteri. È come una medaglia a due facce che devono marciare insieme. Da una parte l’economia sociale, dall’altra parte l’automatismo del mercato. Quando c’è un dislivello perché un potere è più forte dell’altro ci sono le disuguaglianze, c’è povertà, ci sono diritti lesi.
Vorrei anche ricordare la nostra missione. La microfinanza in Italia dispone oggi di numeri significativi. Abbiamo intermediari bancari e finanziari che mettono a disposizione risorse per finanziare le imprese, e possiamo contare su una rete di oltre mille tutor. Il microcredito, infatti, si distingue dal piccolo prestito perché si configura come uno strumento pubblico che include servizi di accompagnamento: il tutoraggio è previsto prima, durante e dopo l’erogazione del finanziamento. È proprio la presenza di questi servizi a trasformare un piccolo prestito in un vero microcredito. I nostri oltre mille tutor svolgono attività di supporto, monitoraggio e accompagnamento, elementi fondamentali per il successo delle operazioni.
Abbiamo anche una rete capillare di sportelli – circa 110 su tutto il territorio nazionale – istituiti su iniziativa del nostro Ente presso comuni, regioni, camere di commercio, comunità montane, centri per l’impiego, università e confederazioni imprenditoriali.
Secondo i dati aggiornati a maggio 2025, forniti dal Medio Credito Centrale, sono oltre 27.000 le operazioni di microcredito approvate a valere sul Fondo di Garanzia, per un valore complessivo superiore ai 700 milioni di euro. Il finanziamento medio per decennio è stato pari a 25.600 euro, ma negli ultimi anni l’importo è aumentato, raggiungendo nel 2024 una media di 31.700 euro, anche grazie a modifiche normative che hanno ampliato la portata dello strumento.
Quanto ai settori di impiego, il 62,7% dei finanziamenti ha riguardato il commercio, il 22% i servizi, il 13,9% l’industria e lo 0,8% l’agricoltura. Questi numeri incidono direttamente anche sull’occupazione. Secondo i dati Istat del 3 giugno scorso, il tasso di disoccupazione in Italia è sceso al 5,9%, pari a circa un milione e mezzo di persone in cerca di lavoro.
Nel biennio 2023–2024, l’Ente Nazionale per il Microcredito ha gestito oltre 7.000 finanziamenti imprenditoriali, che hanno generato più di 21.000 nuovi posti di lavoro, tenendo conto dell’effetto leva che il microcredito esercita sulle microimprese beneficiarie. Questo dimostra come, pur nella sua dimensione contenuta, lo strumento del microcredito contribuisca concretamente a ridurre la disoccupazione, sostenendo un trend positivo del mercato del lavoro. In particolare, nel periodo considerato, il microcredito ha inciso sul tasso di occupazione per uno 0,35%, se includiamo anche gli strumenti finanziari complementari e le misure integrate sul Fondo di Garanzia.
Questi risultati, seppur parziali, hanno avuto un impatto anche sul PIL del nostro Paese. Quando un’impresa nasce da una condizione di povertà o disoccupazione, smette di essere un peso per lo Stato, un utente dei servizi sociali o, peggio, una potenziale vittima della criminalità organizzata. Non è più un assistito della Caritas, ma un contribuente che restituisce i finanziamenti ottenuti grazie al supporto pubblico. Diventa impresa, paga le tasse, restituisce i fondi, partecipa attivamente all’economia.
In questo senso, il microcredito rappresenta anche un’importante forma di educazione finanziaria e genera nuovi clienti sani per il sistema bancario. Il messaggio sociale del Giubileo si inserisce perfettamente in questa filosofia di intervento: promuovere un’economia sociale di mercato e rafforzare il ruolo dell’Italia come protagonista di un cambiamento responsabile in questo momento storico.
INTERVENTO MONS. BALDASSARRE REINA, VICARIO GENERALE DELLA DIOCESI DI ROMA
Visto che parliamo del significato sociale del giubileo, citerò alcuni versetti del Levitico dove per la prima volta viene descritto l’evento sociale del giubileo.
“Al decimo giorno del settimo mese, farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo potrete mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà nella sua proprietà. Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quando acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. Regolerai l’acquisto che farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli venderà a te in base agli anni di raccolto. Quanti più anni resteranno tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo, tanto più ribasserai il prezzo, perché egli ti vende la somma dei raccolti. Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore, vostro Dio.” (Levitico 25:8-17)
Il giubileo nasce con una forte connotazione sociale: la libertà degli schiavi, la restituzione della terra, una nuova possibilità data agli schiavi a coloro che avevano perso la libertà. Gli esegeti discutono molto se si sia mai riusciti a mettere in pratica tutte le indicazioni contenute nel libro del Levitico. Comunque, rimane questa aspirazione all’interno del popolo ebraico, tant’è che viene ripresa dal Signore Gesù all’inizio del suo ministero pubblico all’interno del Vangelo di Luca.
L’argomento di questo incontro sollecita una riflessione sui grandi temi della disuguaglianza tra popoli e, all’interno di ciascuno di essi, tra le classi sociali, e sugli strumenti per avviare possibili politiche di giustizia e di pace. In questo senso, le indicazioni della Chiesa sono chiare: Papa Francesco, nella bolla di indizione del Giubileo, scrive che i suoi scopi saranno realizzati “se saremo capaci di recuperare il senso di fraternità universale, se non chiuderemo gli occhi davanti al dramma della povertà dilagante, che impedisce a milioni di uomini, donne, giovani e bambini di vivere in maniera degna di essere umani”. Penso specialmente ai tanti profughi costretti ad abbandonare le loro terre.
E nello stesso documento auspica che la speranza “si traduca in pace per il mondo che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra”. L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire, con coraggio e creatività, spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura”.
Parliamo dunque di un evento che sollecita tutti all’impegno per la giustizia e per la pace concentrandosi anche sulla situazione italiana; tuttavia, non si può ignorare che l’attuale fase geopolitica impone scelte che vanno oltre i nostri confini, pena un collocamento nell’irrilevanza. Anche per l’Italia, dunque, in termini di giustizia, si segnala la questione del debito internazionale. Ma è innegabile una strana incuria nel dibattito internazionale su questo tema, che all’avvenimento giubilare saremmo chiamati a collegare invece strettamente.
Eppure, a ricordarlo, almeno a chi si dichiara cristiano, basterebbe il Padre Nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Lo stesso Gesù ci ha detto di pregare così, e noi lo facciamo più o meno da duemila anni. Ma troppo spesso dimentichiamo di tradurre in gesti concreti ciò che affermiamo.
Del resto, già nell’Antico Testamento, la cancellazione dei debiti che riducono in schiavitù era tema fondante del Giubileo, come abbiamo appena letto. Ma l’indicazione biblica non è mai stata applicata, se non da alcuni singoli individui che conoscevano bene il significato di giustizia.
La ricerca della pace è strettamente legata anche a questo, perché non c’è pace senza giustizia. Questo significa comprensione, scelta di considerarla un cantiere sempre aperto. Tuttavia, oggi il mondo, in gran parte dei suoi leader, sembra dimenticare che perseguire la pace suppone la necessità del dialogo e il ripudio della guerra. Verrebbe da dire, nonostante l’attività meritoria di molte espressioni della società civile e delle organizzazioni religiose, che in quel cantiere si lavori sempre meno a costruire, e sempre più a picconare.
I principi del multilateralismo e del diritto internazionale, sulla pari dignità di ogni nazione, sulla doverosa tutela di ogni essere umano, arretrano di fronte a rinascenti nazionalismi arroganti e quanto mai pericolosi. L’ONU perde autorevolezza, le sue risoluzioni sono ignorate, in qualche caso persino palesemente rinnegate da Paesi che le avevano votate. I suoi trattati, che pure sono fonti primarie nella gerarchia delle leggi dei Paesi democratici, sono considerati poco più che irrilevanti. Le sue missioni trattate come intralci.
Così, la pseudo-cultura del nemico, dello scontro, del conflitto, innesca una spirale suicida, che con il perfezionamento degli strumenti di morte minaccia la distruzione dell’umanità intera. Questa volontà divisiva si fa largo non solo a livello internazionale, ma anche all’interno di molti Stati che vantano di essere democrazie. C’è qualcosa di demoniaco in tutto questo. Del resto, la parola “diavolo”, come sappiamo molto bene, deriva dal verbo greco diaballo: dividere, calunniare.
Ma la speranza nel bene sa essere ostinata, in quei costruttori di pace che il Vangelo chiama “beati”. Ostinata nel magistero della Chiesa, forte della promessa che le forze del male non prevarranno: valebunt, sed non praevalebunt. Ma quella stessa ostinazione si nutre anche della convinzione, citata da Papa Francesco nella bolla d’indizione del Giubileo, che ispira le parole di San Paolo “Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata, la virtù provata la speranza” è un passo della Lettera di San Paolo ai Romani (5:3-4).
Purtroppo, cito ancora una volta Papa Francesco - “siamo ormai abituati a volere tutto e subito. In un mondo dove la fretta è diventata una costante, non si ha più il tempo per incontrarsi, e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura”.
Vorrei aggiungere che, su questi temi, c’è una sintesi del magistero di speranza di Papa Francesco nel suo discorso dello scorso gennaio, nell’annuale incontro con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. A colpire i commentatori è stato certo il riferimento “alla sempre più concreta minaccia di una guerra mondiale, stavolta non più definita a pezzi”, come tante volte negli ultimi anni, “ma come prospettiva ingombrante senza un’inversione di rotta nell’attuale momento storico”.
Ma c’è un’altra espressione, “una nube scura di diffidenza”, che spiega forse meglio quel discorso. Il Papa l’ha usata a proposito della questione migratoria, ma può applicarsi a tutti gli argomenti trattati, a partire dall’esasperazione delle società, sempre più polarizzate, nelle quali cova un generale senso di paura e di sfiducia verso il prossimo e verso il futuro. A questa diffidenza, anche nei luoghi almeno finora risparmiati dalla guerra, come per fortuna il nostro Paese, contribuisce l’imperversare di false notizie, non di per sé incontrollabili, ma piuttosto palesemente volute, tali da chi controlla la comunicazione globale. Queste non solo distorcono la realtà dei fatti, ammonisce il Papa, ma finiscono per distorcere le coscienze, suscitando false percezioni della realtà e generando un clima di sospetto che fomenta l’odio, pregiudica la sicurezza delle persone e compromette la convivenza civile e la stabilità di intere nazioni.
I risultati sono: lo sgretolarsi dello Stato sociale, la diffusione crescente delle armi, anche tra le popolazioni civili, a esclusivo vantaggio di chi le produce e le vende, la dispersione del senso di comune appartenenza all’umanità. Sul piano internazionale, la crisi del multilateralismo e del diritto internazionale lascia spazio allo strapotere di oligarchie tecnologiche e finanziarie, alle quali la politica ormai si piega.
Si ripropone così, in dimensione globale, lo schema di alimentare la paura per ottenere consenso, e si riversano sulle società civili le idee perniciose che hanno sempre generato violenza: il nazionalismo e l’egoismo del primato dell’io.
A questo, il Papa oppone l’appello al senso del Giubileo: a maturare la convinzione, dice lui, di “fare una sosta dalla frenesia che contraddistingue sempre più la vita quotidiana, per rinfrancarsi e per nutrirsi di ciò che è veramente essenziale: sostenere i deboli e i poveri, far riposare la terra, praticare la giustizia, ritrovare la speranza”. Un appello che riguarda tutti e ciascuno, ma richiama soprattutto quanti servono il bene comune ed esercitano quella forma alta di carità, forse la forma più alta di carità, che è la politica.
Ai diplomatici, e attraverso essi ai governi, il Papa ha ricordato che la speranza di pace e più ancora di futuro, non è destinata a rivelarsi vana. E ha tracciato alcuni tratti di una diplomazia della speranza, di cui tutti siamo chiamati a farci araldi, affinché le dense nubi della guerra possano essere spazzate via da un rinnovato vento di pace, indicando quanto ogni leader politico dovrebbe tenere presente nell’adempimento delle proprie responsabilità, che dovrebbero essere indirizzate all’edificazione del bene comune e allo sviluppo integrale della persona umana.
A riguardo, Papa Francesco rinnovava le proposte di politiche di giustizia già fatte più volte su questioni cruciali, strettamente connesse. La prima: affinché, con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari, “costituiamo un fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa” (Fratelli tutti, n. 262).
L’altra, a essa collegata, in qualche modo propedeutica, è il suo accorato invito alle nazioni più benestanti, affinché, riconoscendo la genesi di tante decisioni prese, stabiliscono di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli.
C’è infatti un vero debito ecologico – dice ancora Papa Francesco in Laudato si’ – soprattutto tra Nord e Sud, connesso a squilibri commerciali, con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi. Non basta dunque la – pur primaria – esigenza di fermare le armi. E già sarebbe tanto.
Una consolidata tradizione, attribuita ad Agostino di Ippona (anche in assenza di fonti certe), insegna che la speranza ha due figli: l’indignazione e il coraggio. L’indignazione resta sterile se non si traduce in responsabilità e chiama ciascuno a farsi artigiano di pace, perché si possano edificare società realmente pacifiche, in cui le legittime differenze, politiche, sociali, culturali, etniche e religiose, costituiscano una ricchezza, e non una sorgente di odio e divisione.
Quanto al coraggio, bisogna smentire il “don Abbondio” manzoniano, perché chi non lo ha ancora, può e deve imparare a darselo. A partire dai governi, per arrivare a ogni popolo, che su questo soprattutto è chiamato a giudicarli, e nel caso, a cambiarli.
Chiunque abbia nella sua esperienza l’andare per mare sa che, senza tracciare una rotta, si va solo alla deriva. Vale anche nella vita individuale, sociale ed ecclesiale. E se in mare può essere anche bello, talora, veleggiare senza una meta, nella vita in generale la questione cambia.
Ci sono parole che indicano rotte, parole che indicano derive. Una di queste è “periferia”. Ovviamente, non intesa nel mero senso topografico. Una parola che è stata centrale nel magistero di Papa Francesco, che invita a cercare un punto di vista diverso, possibili rotte per un diverso futuro. Ma, al tempo stesso, suggerisce qualche riflessione sulla deriva sociale che all’apparenza caratterizza il nostro tempo.
Diciamo che, in un’epoca di globalizzazione falsata da uno strapotere della finanza, scollegato dall’economia reale e dalla giustizia sociale, è il concetto stesso di periferia a dover essere rivisto. E con esso, il concetto di democrazia.
Il centro che si contrappone alle periferie sociali non è oggi rappresentato dalle capitali, dai palazzi della politica, dalle ideologie vincenti. Il centro reale del potere è quasi staccato dai comportamenti umani, lodevoli o perversi che siano: sta in transazioni finanziarie gigantesche, regolate in gran parte da algoritmi matematici.
Paradossalmente, finisce quindi per risultare periferica la quasi totalità dell’esperienza umana. Se mille persone controllano oltre la metà della ricchezza del mondo, statistica abbondantemente documentata da tutti i rapporti internazionali, a essere esclusa dalla costruzione del futuro è, in pratica, la quasi totalità del genere umano.
Ovviamente, ci sono le eccezioni. Ma in tutto il mondo, dal Sud devastato ai nostri Paesi tuttora opulenti, l’ascensore sociale, il vero frutto della storia delle democrazie, è bloccato. I poveri restano tali, o lo diventano di più. La classe media viene ricacciata indietro. E i giovani si avviano a un futuro molto più difficile del presente dei loro padri.
Nessuno può ragionevolmente pensare che le libertà politiche ed economiche possano trovare un’effettiva tutela senza rappresentanza, senza le strutture dei sistemi parlamentari. Ma la democrazia è fatta di contrappesi, non solo di delega attraverso il voto. E a far vacillare una democrazia basta ormai la pressione di una crisi economica.
Il vero nemico dei sistemi parlamentari è il deficit di partecipazione, la progressiva irrilevanza delle strutture intermedie tra cittadino e Stato. Finché c’è benessere abbastanza diffuso, c’è una forza di inerzia del sistema. Ma basta una crisi di risorse a fare esplodere le tensioni.
La democrazia parlamentare vive di mediazioni, ma i suoi benefici, le conquiste di civiltà dello Stato sociale, si incrinano quando: la qualità della vita peggiora, la classe dirigente colleziona fallimenti ed episodi di corruzione, la burocrazia è opprimente, la prospettiva del proprio futuro personale si fa inquietante.
In un gioco perverso, al quale Internet ha dato un nutrimento impensabile fino a un paio di decenni fa, a quanti perdono diritti, speranze, tutele sociali, viene lasciata solo l’indignazione. Non certo quella indignazione figlia della speranza e sorella del coraggio, che la tradizione attribuisce ad Agostino, ma un’indignazione sterile, che si appaga di potersi esprimere in una isterica bulimia di consenso di sé stessi sui social.
E allora si perde il senso stesso del principio democratico, al punto che l’idea del leader forte, o il vociare feroce di forze politiche che indicano solo i nemici, a partire dallo straniero, che puntano sul protezionismo, sulla chiusura, sulla discriminazione, lungi dall’essere riconosciute come minaccia, danno rassicurazione e identificazione al risentimento.
A questa deriva si oppone la rotta segnata dal Giubileo, che ha come sua forma forse più evidente il pellegrinaggio, e come destinazione forse più significativa la nostra città, Roma: il vedere Pietro, con tutto quanto di esplicito e implicito questo comporta.
“Alloggiare i pellegrini” è una delle opere di misericordia indicate dalla Chiesa e che ci sono state insegnate fin da bambini, al catechismo. Ma “alloggiare”, nella ricerca di senso che oggi stiamo cercando di definire riguardo al messaggio sociale del Giubileo, non significa solo fornire un tetto, né tantomeno guardare i guadagni previsti nel settore alberghiero.
Proviamo a pensare che “alloggiare” significhi “accoglienza”. Capiremo meglio cosa il Giubileo chiede a tutti e, soprattutto, alla comunità di questa diocesi, la diocesi del Papa, chiamata a presiedere tutte le altre nella carità e nella comunione.
Mi sembra opportuno ricordare, più in generale, anche le conclusioni della riflessione condotta dalla nostra diocesi lo scorso anno, nel sessantesimo anniversario dello storico convegno sui “mali di Roma”, meglio conosciuto come “Febbraio del ’74”, esposte alla presenza del Papa lo scorso ottobre nella cattedrale di San Giovanni.
Esse indicano quattro ambiti prioritari di intervento, che esigono: impegno pubblico, insieme ad ascolto della popolazione, comunicazione efficace. Anche a questo, nell’ambito della comunità ecclesiale, si sforzano di contribuire: le nostre visite pastorali, i colloqui con il Santo Padre, l’impegno delle parrocchie, i diversi responsabili e gli operatori degli uffici del Vicariato, le strutture di volontariato, e quant’altro.
Perché il messaggio sociale del Giubileo si sostanzi nella presa di coscienza e nel pentimento del male che tutti, chi più e chi meno, abbiamo fatto o consolidato con i pensieri, le parole, le azioni, le omissioni; e nella volontà di contribuire a sanarlo e ad aprire le Porte Sante della speranza. Come comprendiamo da questa breve carrellata, con l’aggiunta di alcune riflessioni a margine, l’impegno sociale, il messaggio sociale del Giubileo, verrebbe da dire proprio riprendendo l’immagine del cantiere, è un cantiere aperto. È un cantiere che richiede tutto il nostro impegno da qui in avanti. A questo, spero che possa contribuire anche l’incontro di questo pomeriggio, per il quale ancora una volta ringrazio gli organizzatori.
INTERVENTO GIANCARLO GIORGETTI, MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
Le prime riflessioni che voglio fare partono dalla Bibbia, esattamente dal libro del Levitico, e voglio soffermarmi soprattutto sul concetto del tempo, che sarà poi il filo conduttore del mio intervento. “Venendo l’anno del Giubileo”, cioè l’anno quiquagesimo, “della remissione sarà confusa la distribuzione delle sorti e l’uno possederà la parte dell’altro”. E il Giubileo — questo azzeramento: dopo 49 anni, i debiti e gli obblighi vengono rimessi — il che dovrebbe apparire stravagante a chi fa il Ministro del Tesoro che non può fidarsi di vedere azzerato per decreto celeste il debito pubblico.
Tuttavia, al di là dell’auspicio religioso di un ravvedimento universale — per cui si compie “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” del Padre Nostro — la questione resta difficile da eludere anche per me, che sono un contabile del debito e delle spese. E però qualcosa, dalla letteratura economica, si ricorda: devo ammetterlo, la definizione più precisa di capitale nella scienza economica, che tra l’altro meglio si accorda con la contabilità, è quella della scuola austriaca, i quali spiegano che “il capitale è fatto di tempo”. Il valore di una macchina per un’impresa, o di una casa per chi l’abita, implica un ammortamento, ovvero lo sconto del fatto che tutto perisce, è deperibile e dunque va rifatto — il che risultava ovvio anche per il mondo ebreo arcaico, obbediente alle regole della reciprocità.
Una casa, o persino un ovile, implica il dono al cielo e agli ospiti: vivevano per una comunità il cui equilibrio era più prezioso dell’accumulo. Ma se il capitalismo si accumula in perpetuazione del capitale per mezzo del profitto, la questione della sua durata resta. I titoli di borsa destinati a un’innovazione crollano, già che il tempo accelera la creazione del profitto ma rovina il capitale delle imprese vecchie, che ne viene annientato.
Questo avviene anche per i risparmi delle famiglie: basta pensare a cosa è successo negli anni Settanta, ridotti a ben poco dall’inflazione. Sempre il Levitico dice: “Secondo il numero degli anni trascorsi dopo il Giubileo stabilirai il prezzo d’acquisto da parte del tuo compatriota, ed egli, secondo il numero d’anni di rendita, ti stabilirà il prezzo di vendita — più grande il numero di anni da trascorrere prima del Giubileo e più aumenterà il prezzo”. E di fatto questa frase implica un vero e proprio sconto del capitale, una sua riduzione a tempo su una soglia che è quella dei 49 anni, la quale poi forse non è così ingenua.
Il ritmo è settenario, come quello dei Vangeli e dell’Apocalisse, ma anche qui è solo una ingenuità questo ritmo. Di fatto, i cicli economici non obbediscono alla teoria di chi li riferiva ai cicli delle macchie solari e li definiva decennali. La storia economica li ritma in cicli di sei o sette anni, e nella recessione avviene una distruzione di capitale e un suo rinnovo.
In altri termini, la questione della durata del capitale, del suo rinnovo — di cui l’ammortamento contabile è soltanto un aspetto — non è così banale neanche oggi, malgrado gli sforzi inesausti dello Stato e delle borse di far finta di niente. Ma questa vicenda del debito e della remissione del debito, del tempo, io la voglio interpretare a mio modo, perché so che citare poi dei passi del Vangelo è un esercizio su cui non voglio assolutamente misurarmi. Però sono quei passi che a me più mi hanno colpito: Matteo, che ha scritto un Vangelo che cerca di conciliare il vecchio e il nuovo.
Versetto 10: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” — il discorso missionario. Allora, so perfettamente a dove viene applicato e come viene applicato, ma io lo voglio declinare per me, Ministro dell’Economia e delle Finanze.
E il “gratuitamente” che abbiamo ricevuto, cos’è? E cosa sono? E cosa erano per gli ebrei che scrivevano nel Levitico? Era la natura, l’aria, l’acqua: tutto quello che il buon Dio ci ha regalato, ci ha donato gratuitamente. Il che mette in imbarazzo chi ha fondato la scienza economica moderna. Il buon Adam Smith, quando scrisse “Indagini sulla ricchezza delle nazioni”, introdusse il famoso paradosso dell’acqua e del diamante: “È evidente che l’acqua, serva, in termini di uso, è indispensabile, è la cosa che vale di più; peccato che economicamente non valga nulla, non abbia sostanzialmente un prezzo, non è un bene economico, mentre il diamante, che non serve assolutamente a nulla, ha un prezzo enorme, ha un valore di scambio enorme”.
Da qui la grande distinzione tra valore d’uso e valore di scambio su cui si è fondata tutta la scienza economica da allora fino ad oggi, salvo poi andare in clamorosa contraddizione, se pensiamo ai tempi nostri in cui, dopo millenni in cui l’acqua era disponibile in grandi quantità e non aveva prezzo, oggi l’acqua — e basta aprire internet per vedere quanti ne parlano — è una risorsa limitata e comincia a avere un prezzo, ed è forse il primo evento catastrofico naturale che ci minaccia, senza pensare all’aria.
Probabilmente, cento anni fa nessuno avrebbe mai pensato che avremmo avuto bisogno di dare un prezzo all’aria, ma è quello che stiamo facendo, senza pensare a cosa succede. Purtroppo, con i satelliti che stanno invadendo lo spazio celeste, ci sarà un problema di regolazione, perché prima o poi si scontreranno. Abbiamo ceduto gratis, probabilmente, lo spazio celeste.
Torno ad Adam Smith, che stabilì che il bene economico ha un prezzo. E questo problema si ricollega poi al problema delle ricchezze dei Paesi, delle povertà dei Paesi, perché qualche anno dopo di lui, un altro signore, con un altro paradosso, Lothar Dahlke, chiarisce che c’è sostanzialmente una relazione inversa tra la ricchezza del PIL delle nazioni e la povertà dei loro beni pubblici: “Quanto più una nazione è ricca di PIL — che è lo strumento con cui misuriamo la ricchezza di un Paese e della sommatoria delle ricchezze private — tanto più è povera di beni pubblici”.
E se penso a tanti Paesi oggi, la cui ricchezza non è paragonabile a quella di grandi Paesi come il nostro o gli Stati Uniti, dove però, a prezzo di questa ricchezza, abbiamo compromesso alcuni beni pubblici che fanno riferimento proprio all’enciclica del Papa, con riferimento alla necessità di preservare il pianeta. Allora, questo “gratuitamente” che abbiamo ricevuto implica che probabilmente dobbiamo rivedere un po’ le nostre categorie di ciò che è economico, di ciò che è bene economico e di ciò che non lo è, sia a livello individuale — nelle nostre abitudini e nei nostri comportamenti — sia a livello statale, dei governi, nel momento in cui decidiamo e ci approcciamo alle decisioni assunte nei consessi internazionali.
Ho ascoltato prima l’appello a rimettere il debito. Devo dire che, in tutti i consessi internazionali — Fondo Monetario, G20, G7 — ho sentito parlare molto della necessità di indurre e costringere i Paesi del terzo mondo — o, come si chiamavano un tempo, “in via di sviluppo” — a rincorrere obiettivi di tipo ambientale, quando invece manca ancora l’elemento primario: soddisfare i problemi di nutrizione e di fame.
Nessuno parla di remissione del debito, ma di obiettivi ambientali che abbiamo contribuito a generare con la nostra ricchezza. Diciamo che Karl Marx aveva individuato con chiarezza questo concetto: che il bene comune va preservato e non può essere messo in discussione dalla libera iniziativa privata. Le conseguenze politiche di quelle conclusioni sono state, diciamo così, in parte fallimentari, ma l’analisi economica non ne è per nulla priva.
Rispetto a questa gratuità dei beni ricevuta, dobbiamo anche noi “dare gratuitamente”. C’è tutto l’aspetto del volontariato e del terzo settore, che pure non riceve adeguata valorizzazione economica, eppure rimane fondamentale. Pensate alla scuola: faccio un esempio perché poi se ne parla in termini polemici. Nel mio piccolo paese di 700 abitanti, se non ci fosse una scuola o un asilo dove il volontariato supplisce lo Stato, non ci sarebbe quel servizio. Eppure quel tipo di servizio non viene economicamente valutato.
Tre stipendi di docenti avrebbero accresciuto il PIL. Il volontariato, invece, non contribuisce all’aumento del PIL. Anche questa è una riflessione che, secondo me, dobbiamo iniziare a fare.
Il “dare gratuitamente” non può essere semplicemente un fatto oggettivo riferito al volontariato: è anche, e soprattutto, una disposizione d’animo, uno stato interiore con cui ciascuno affronta le proprie attività — il mio compito da Ministro, come il vostro lavoro. E questo atteggiamento, questo spirito, questo stile di vita è probabilmente oggi profondamente compromesso.
Il lavoro — ricordo — è un valore fondamentale nella Costituzione: non è più vissuto come fine, ma quanto produce nel profitto o nello stipendio. E questo, lo vedo soprattutto nelle nuove generazioni — un problema, a mio avviso. L’importanza della gratificazione — non oso dire della santificazione, per carità — nella propria attività non può essere misurata solo dalla giusta retribuzione. E con una tensione — avete sentito il termine “tutto subito” — che si ricollega al filo del mio intervento: il tempo.
A questo punto, vorrei portare un altro tema cui ho fatto riferimento spesso: credo che sia una delle malattie — se non la malattia — della nostra economia. Mi appoggio su un passo del Vangelo di Matteo, che adoro: la parabola dei talenti.
Ho chiesto all’intelligenza artificiale: “Parabola dei talenti — cosa significa?”. Mi ha risposto: «La parabola dei talenti, narrata in Matteo, simboleggia i doni, le capacità e le opportunità che Dio affida a ciascun individuo. Il talento in questo contesto non è solo una moneta, ma rappresenta risorse, doni spirituali e abilità. Esorta a non tenerli nascosti, ma a farli fruttificare con responsabilità e impegno».
Questa interpretazione mi pare giusta. E questo concetto di talento — farlo fruttare, non tirarsi indietro, non cadere nell’accidia, come avrebbe detto Dante — credo sia cruciale per spiegare ciò che sta succedendo oggi nell’economia, nelle famiglie e nelle banche.
Qui cito Eminenza: in una recente omelia, durante i novendiali, ha detto: «Ci sono tempi come il nostro in cui, al pari degli agricoltori della Bibbia, seminare diventa un gesto estremo, mosso dalla radicalità di un atto di fede». È vero: vale per un figlio di contadini come lei, Eminenza, e per un figlio di pescatori come me.
Nel Vangelo, i pescatori sono trattati meglio dei contadini. Il vecchio curato del mio paese — un villaggio di pescatori — ripeteva che il Vangelo dava a quei pescatori un posto migliore, e li rincuorava: “Stiate tranquilli”.
Anche in economia ci sono tempi in cui, per seminare o gettare la rete, serve un di più — un surplus che va oltre algoritmi, statistiche e previsioni. Il messaggio del Giubileo racchiude questo di più: speranza o, più semplicemente, fiducia, che è un requisito irrinunciabile anche nell’economia.
Perché dico questo? Perché oggi, rispetto alla società arcaica del Levitico — e persino a tempi recenti — manca la fiducia nel futuro. Lo vediamo ovunque.
Partiamo dall’“azienda” primaria: la famiglia. Se guardiamo i manuali di economia aziendale, la definiscono così. Ma nella famiglia di oggi si ragiona con fiducia nel futuro? Si investe nei figli? È ancora radicata la mentalità “prima casa”? Oppure all’americana “cambi casa spesso”? I dati mostrano che i giovani non hanno più il mito di comprare un’auto: la noleggiano.
Cosa voglio dire? La mia sensazione è che l’idea di “tutto e subito”, “cogli l’attimo”, “porta a casa l’attimo”, senza investire né rischiare per il futuro, stia distruggendo anche le nostre famiglie.
E nelle imprese succede lo stesso: senza investimento non c’è futuro. Puntare al profitto nel breve periodo vuol dire distruggere le basi stesse della sopravvivenza dell’impresa.
Oggi, soprattutto nelle aziende quotate in borsa, che devono dimostrare risultati trimestrali agli azionisti, si privilegiano bilanci a breve termine e si rinuncia a seminare, a investire, a creare condizioni per lo sviluppo futuro. Questa, secondo me, è un’altra malattia: lo short-termism.
I manager vengono valutati secondo questa logica: realizzano profitti per due o tre anni, incassano stock option e se ne vanno, lasciando un’impresa “morta”. Come invertire questa tendenza? La vedo complicata.
Girando l’Italia, incontro imprese che funzionano, con uno spirito di gratuità, spesso familiari, con più generazioni insieme, che resistono alle sirene dei fondi esteri che offrono pacchetti di soldi per vivere di rendita. Tali imprese scelgono di continuare, nonostante rischi come guerre e dazi.
Infine, una riflessione sulle banche: in passato si chiamavano “monti di pietà”, “casse di risparmio” — nomi che suonavano quasi poetici. Oggi, misteriosamente molte banche non ci sono più. Sono scomparse perché non si poteva prendere in giro più nessuno, però il credito è nato anche su altri presupposti che non siano la renditività della semestrale, perché il risparmio e il credito sono iscritti nella Costituzione, sono dei valori non semplicemente volti a realizzare il profitto. Penso a chi offre microcredito; a chi assume rischi, presta ai meritevoli, mette a frutto talenti. Questo è vero aiuto all’economia e alla società, non il puro guadagno semestrale.
Concludendo la malattia che vedo è legata al tempo, al respiro corto, che non si concilia con l’eterno. Come ha scritto Clive Staples Lewis: “Gli uomini sono anfibi: metà spirito, metà animali; in quanto spiriti, appartengono all’eternità, ma in quanto animali, vivono nel tempo… quando vanno in depressione sono nel momento più debole, lì si insedia la tentazione” (Lettere di Berlicche). Per questo dobbiamo lavorare sull’eterno e sullo spirituale: è forse l’unica speranza che può salvarci.