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Intervista A Paolo Morozzo Della Rocca

Luciano Ghelfi
Giornalista Quirinalista Del Tg2

È impegnata da più di 50 anni per gli ultimi la Comunità di Sant’Egidio, radici in Trastevere, ma presente in oltre 70 Paesi del mondo. In prima linea contro la guerra, considerata la madre di ogni forma di povertà, e impegno profondo nelle periferie e nell’integrazione. Un motore instancabile di iniziative, dall’accordo che pose fine al conflitto in Mozambico all’impegno per alleviare le condizioni dei migranti, in Italia e non solo. Fondata da Andrea Riccardi e presieduta oggi da Marco Impagliazzo, la Comunità di Sant’Egidio rappresenta anche un formidabile termometro dei bisogni sociali. Da questo colloquio con Paolo Morozzo della Rocca, responsabile dello sportello giuridico della Comunità di Sant’Egidio per l’Immigrazione (e ordinario di diritto privato all’Università di Urbino) abbiamo ricavato una fotografia aggiornata della questione migrazioni in Italia, su cui la pandemia ha inciso profondamente, più di quanto non si parli. E abbiamo ragionato insieme di come iniziative mirate di sostegno possano aiutare, non ultimo strumenti di microcredito ritagliati su misura per favorire l’integrazione nella nostra società.

Professor Della Rocca, Integrazione e inclusività sono fra le priorità della Comunità di Sant’Egidio sin dalla sua nascita. Trova che oggi la questione migratoria sia di nuovo tornata di attualità, dopo la pandemia?

Quello dei flussi migratori è un tema prioritario ma anche di lunghissima durata, certamente decisivo. La pandemia vi ha inciso costituendo un’importante fattore di variazione del fenomeno. C’è stata una diminuzione temporanea dei grandi flussi. Non quelli degli attraversamenti clandestini, che costituiscono i flussi più appariscenti ma non i più numerosi. Bensì i flussi ordinari mediante vettori regolari di trasporto (aerei, navi, ecc.) e con documenti di viaggio regolari (incluso il visto, quando richiesto). Un freno dovuto alle restrizioni. Ciò ha portato a un calo dei ricongiungimenti familiari, una diminuzione degli ingressi legali per lavoro; ma anche un calo degli ingressi per visita breve i quali costituiscono di gran lunga il maggior flusso di ingresso e all’interno del quale si sviluppa il fenomeno degli overstayer (persone entrate regolarmente ma che prolungano il loro soggiorno illegalmente).

I maggiori effetti della pandemia, a mio parere, non riguardano però i flussi di ingresso bensì la qualità della inclusione sociale degli immigrati già soggiornanti. La disoccupazione da pandemia ha colpito in modo maggiore gli immigrati rispetto ai nativi; inoltre le reti private di protezione sono state per loro meno estese e meno efficienti (assenza di famiglie allargate solidali, minore accesso alle reti di aiuto locali ecc.).

Gli effetti negativi della pandemia sull’immigrazione non sono stati adeguatamente contrastati dal legislatore, reso impacciato dai difficili equilibri politici ma anche da scarsa consapevolezza dei problemi di questa parte della popolazione. Ad esempio: lo straniero rimasto disoccupato a causa della pandemia rimane soggetto all’onere di produzione di un reddito minimo per potere rinnovare il permesso di soggiorno e quindi lo perde.

È stata certamente una buona idea avviare una regolarizzazione collettiva per care-giver familiari e per braccianti. Ma lo si è fatto senza modularne la disciplina adattandola al periodo di pandemia che stiamo vivendo e si è così prodotta una regolarizzazione dai numeri fallimentari, tradendo la fiducia delle persone coinvolte, lavoratori e famiglie committenti, tra cui molti anziani fragili. Oggi guardiamo con speranza al diminuire dell’allarme pandemico ma ricostruire il tessuto dell’inclusione sociale significa mantenere reti di prossimità nei quali gli immigrati si collocano pienamente sia tra i sostenuti che tra i sostenitori, data la loro essenziale presenza nella rete dei servizi alla persona e alla base del sistema produttivo e logistico del Paese.

Quali sono le principali linee di azione di Sant’Egidio a favore dei migranti?

In Italia il sostegno alle famiglie: alimentare, scolastico, sanitario (abbiamo aperto hub vaccinali, aiutiamo con le pratiche presso le Asl; seguiamo i percorsi sanitari più delicati integrandoli con il sostegno sociale necessario). Grande rilievo ha l’insegnamento della lingua italiana, con migliaia di iscritti ai nostri corsi per giovani e adulti. Siamo inoltre impegnati nel sostegno scolastico ai minori con doposcuola talvolta anche intensivi. Sul fronte internazionale c’è l’esperienza in atto dei corridoi umanitari: rispondere alle stragi dei migranti in fuga dai loro Paesi con canali sicuri e una buona accoglienza a favore almeno di chi si trova in una situazione di vulnerabilità e di diritto alla protezione.

Quanti sono i volontari di Sant’Egidio che sono impegnati in questo particolare settore?

100 circa a Roma, di cui 60 in modo più intensivo. Circa 300 in Italia, senza contare una fascia di volontari più saltuari che è molto più larga se si pensa all’offerta di accoglienza per i corridoi umanitari.

Per la vostra comunità qual è il modo più efficace per promuovere la multiculturalità, onde mettere questo valore al sostegno all’impiego dei migranti, al loro inserimento nel nostro tessuto sociale ed economico?

Una prima dimensione della multiculturalità è il rispetto delle identità degli altri, ma nell’amicizia. Una multiculturalità fredda infatti non ha senso, perché diviene separazione. Cerchiamo di valorizzare le tradizioni di ciascuna realtà stimolandone l’orientamento verso i valori universali fondamentali (la pace, il rispetto delle minoranze, la pari dignità di tutte e di tutti) e confidando nella gradualità di un dialogo circolare che coinvolge un caleidoscopio di nazionalità presenti nel mondo dell’immigrazione. I programmi della scuola di lingua guardano al mondo intero (letteratura, poesia, storia) tuttavia la scuola è anche un modo di presentare e approfondire l’Italia e comprenderne i valori costituzionali: l’educazione civica per noi è importante e chiediamo a tutti gli immigrati di vivere da cittadini solidali, molti ci aiutano facendo volontariato e sostengono in modo decisivo molte delle nostre attività.

Cosa pensa personalmente dello strumento del microcredito per il sostegno del tessuto economico e sociale?

Il microcredito potrebbe essere una misura utile per lo sviluppo della microeconomia familiare, per migranti e non solo. Osserviamo con preoccupazione alcuni fenomeni rispetto ai quali il microcredito potrebbe svolgere una funzione positiva. Mi riferisco in primo luogo all’esclusione dal credito per mancanza di garanzie che ha come conseguenza il ricorso all’indebitamento privato (etnico o di ambiente). Ma c’è anche un diffuso problema di scarsa consapevolezza dei meccanismi finanziari.

Può essere il microcredito uno strumento operativo per la lotta all’esclusione sociale e finanziaria, uno strumento cioè dell’Agenda 2030?

Decisamente sì. Sia come azione di investimento su misura degli utenti sia soprattutto come forma di educazione e dunque di promozione umana. Occorrerebbe però agire sulla leva della formazione e dell’accompagnamento. Abbiamo avuto episodi di ricorso al credito per motivi di consumo a tassi sfavorevoli e senza una finalizzazione efficiente, cui è seguito l’impoverimento ulteriore dei soggetti finanziati.

Come giudica l’operato dell’Ente Nazionale per il Microcredito nel sostegno alla microfinanza? E come vede l’ampliarsi di questa attività a una progettualità espressamente dedicata all’inclusione dei migranti?

Ipotizziamo che alcuni immigrati e ancor più giovani e adulti di seconda generazione potrebbero essere valorizzati nella progettualità dell’Ente Nazionale per il Microcredito riguardante la cooperazione con i Paesi di origine. Riguardo invece allo scenario interno, una progettualità rivolta ai migranti dovrebbe forse coniugare “accesso al credito” e “sostegno allo spirito imprenditoriale” che è spesso tarato sulla microimpresa e che soffre molto del divario tra la complessità amministrativa e la capacità di orientamento dell’immigrato. I profili biografici degli immigrati, quanto alle competenze possedute, spesso rimangono relegati nel passato impedendo la valorizzazione di autentiche abilità ed esperienze già maturate, ma vi è anche il rischio dell’impresa incauta e dell’eccessiva esposizione finanziaria. Occorrerebbe quindi abbinare accesso al credito e formazione all’impresa. Per alcuni immigrati (data la presenza di persone con curricula ed esperienze in materia di professioni sanitarie) potrebbe essere utile un prestito d’onore finalizzato alla possibilità di sospendere o ridurre l’attività lavorativa attualmente svolta in una situazione di demansionamento, al fine di completare gli studi o svolgere le attività di tirocinio necessarie al riconoscimento in Italia dei titoli professionali posseduti. In questi casi la soglia di credito giusta si aggirerebbe attorno agli 11.000 euro per anno (per un massimo di tre annualità) da restituire con il reddito prodotto tramite l’utilizzo della qualifica professionale valorizzata.

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