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L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NEL CREDIT MANAGEMENT: TRA FIDUCIA, CONTROLLO E VALORE PREDITTIVO
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NEL CREDIT MANAGEMENT: TRA FIDUCIA, CONTROLLO E VALORE PREDITTIVO
Nel contesto attuale della trasformazione digitale, l’intelligenza artificiale (AI) si sta affermando come una delle tecnologie più dirompenti anche in ambiti tradizionalmente cauti e regolati come il credito. Dalla valutazione del rischio alla gestione del portafoglio clienti, passando per la prevenzione delle frodi e l’ottimizzazione dei processi, l’AI promette di riscrivere logiche operative consolidate da decenni. Tuttavia, tra narrazioni entusiaste e applicazioni ancora frammentarie, il percorso di adozione appare disomogeneo: velocità, maturità e consapevolezza variano sensibilmente tra attori, settori e funzioni. In questo scenario, il credit management si presenta come un laboratorio aperto: da un lato emergono soluzioni innovative, dall’altro permangono resistenze culturali, limiti strutturali e timori legati alla delega decisionale.
Proprio per fare chiarezza su questa fase di transizione — e offrire una base empirica al dibattito — Opyn, in collaborazione con Ipsos, ha promosso la prima indagine italiana interamente dedicata all’adozione dell’AI nella gestione del credito. La ricerca, presentata lo scorso giugno durante l’evento “AI: il futuro della gestione del credito”, ha coinvolto oltre 70 CFO e credit manager di medie e grandi imprese e 13 rappresentanti di istituzioni finanziarie, tra cui banche, operatori fintech e realtà locali.
Ne è emersa una fotografia ricca di contrasti ma anche di segnali chiari: un sistema in movimento, fatto di approcci diversificati, aspettative elevate e punti di convergenza da cui ripartire per costruire il futuro del credito su basi più informate, inclusive e sostenibili. Una transizione che avanza a diverse velocità che richiede competenze, ma anche consapevolezza e la promozione di una cultura dell’AI cui questa ricerca davvero offre un contributo concreto.
Doppia velocità e modelli divergenti
Uno degli elementi più evidenti che emerge dall’osservazione del panorama attuale è la marcata differenza di approccio tra banche e aziende nell’adozione dell’intelligenza artificiale. Sebbene l’89% delle imprese italiane dichiari di aver avviato sperimentazioni su tecnologie AI, l’utilizzo effettivo in ambito finanziario-amministrativo si ferma al 27%, e appena il 16% dispone di competenze interne per gestirla. Solo un quarto delle aziende la utilizza nella valutazione finanziaria dei clienti: il 16% con strumenti interni, l’11% affidandosi a provider esterni. Dove presente, l’adozione è spesso in fase iniziale: progetti pilota, test limitati, investimenti recenti e in molti casi ancora esplorativi.
Al contrario, le banche seguono una traiettoria ben più avanzata, con una maturità operativa significativamente superiore. Tutti gli istituti coinvolti nell’indagine hanno dichiarato di avere fiducia nell’AI, che risulta già integrata in aree strategiche come l’onboarding dei clienti, l’analisi del merito creditizio, la prevenzione delle frodi e i sistemi antiriciclaggio. Le soluzioni più diffuse si basano su modelli di machine learning, mentre l’impiego della generative AI resta per ora limitato a sperimentazioni controllate o a progetti circoscritti, con obiettivi specifici.
Le ragioni di questo divario sono molteplici. Le aziende, soprattutto quelle non appartenenti a settori ad alta intensità tecnologica, incontrano ostacoli significativi: carenza di competenze interne, investimenti limitati, incertezza normativa e la percezione di una tecnologia complessa, poco trasparente e difficile da controllare. Non va sottovalutata, inoltre, la riluttanza a delegare funzioni critiche a un sistema percepito come opaco o potenzialmente fallibile.
AI come leva predittiva e integrata
Banche e aziende, pur con approcci e livelli di maturità tecnologica differenti, condividono una convinzione sempre più solida: l’intelligenza artificiale rappresenta una leva trasformativa per il ciclo del credit management. Il valore dell’AI risiede nella capacità di aggregare, integrare e analizzare grandi volumi di dati eterogenei — finanziari, macroeconomici, settoriali, reputazionali e ESG — che i modelli tradizionali trattano solo parzialmente.
Grazie all’evoluzione degli strumenti di data analytics e all’introduzione dell’AI generativa, è possibile incrociare fonti strutturate e non strutturate, interne ed esterne. Questo consente di superare i limiti delle metriche standard e di ampliare il perimetro informativo nella valutazione del merito creditizio.
Proprio su ESG e filiera emergono differenze significative tra banche e aziende: il 100% delle banche integra i criteri ESG nelle proprie valutazioni, mentre solo il 47% delle imprese lo fa. Le aziende si concentrano soprattutto sulla governance, mentre gli aspetti ambientali e sociali restano marginali. Nella valutazione della filiera, le banche estendono l’analisi anche ai fornitori — soprattutto per il factoring — mentre le imprese si focalizzano prevalentemente sui clienti diretti, con eccezioni in settori come automotive e metalmeccanico.
L’AI può colmare queste lacune, favorendo un approccio più esteso alla valutazione dell’azienda e della sua catena di fornitura.
Un altro passaggio chiave è il superamento del modello di analisi “a scatto”, ancora diffuso nelle aziende, verso un paradigma di monitoraggio continuo e adattivo. Le banche, infatti, effettuano controlli costanti — giornalieri o mensili — su tutte le operazioni, grazie a sistemi di machine learning e strumenti di data analysis.
Questa evoluzione consente una maggiore tempestività nell’identificazione di segnali di deterioramento del merito creditizio e apre la strada a valutazioni sempre più personalizzate, basate su tipologia di business, comportamento storico e dati disponibili.
Le banche risultano generalmente più avanti in questo percorso, grazie a infrastrutture consolidate e investimenti mirati. Tuttavia, anche tra le imprese medio-grandi cresce l’interesse verso forme di monitoraggio automatico e predittivo.
Il ruolo dei provider e la sfida dell’affidabilità
Uno degli aspetti più delicati emersi riguarda la qualità dei dati: senza basi informative solide, l’AI rischia di trasformarsi in una fonte di errore più che di valore. Il rischio di decisioni errate o bias sistemici cresce in assenza di dati aggiornati, verificabili e trasparenti. In questo contesto, il ruolo dei provider diventa centrale per garantire affidabilità, tracciabilità e compliance.
Le aziende si affidano principalmente a banche dati consortili e provider specializzati (come Cribis e Cerved), integrando queste informazioni con elementi qualitativi interni. La valutazione finale è comunque in carico al credit manager, spesso in collaborazione con il reparto commerciale.
Le banche mostrano un livello di sofisticazione più alto: utilizzano dati ufficiali (come quelli della Centrale Rischi di Banca d’Italia, CRIF o Infocamere) combinati con strumenti di analisi proprietari, modelli di machine learning e, nei gruppi maggiori, anche con sistemi di AI sviluppati internamente o tramite grandi società di consulenza.
Accanto ai player consolidati, stanno emergendo provider più agili e flessibili, capaci di rispondere meglio alle esigenze delle PMI grazie a maggiore copertura territoriale, tempestività e personalizzazione.
A fare la differenza sono alcuni requisiti chiave: compliance normativa; reputazione e track record; capacità predittiva; copertura informativa anche su realtà minori; efficienza nell’erogazione dei dati e qualità delle informazioni. L’adozione di AI efficace passa quindi anche dalla scelta di partner tecnologici affidabili e competenti.
Diversi approcci alla filiera e all’analisi ESG
L’utilizzo dell’AI nel credit management rivela differenze significative tra banche e imprese anche rispetto al perimetro di valutazione. Le banche adottano un approccio più strutturato: nella maggior parte dei casi estendono l’analisi non solo ai clienti diretti, ma anche ai fornitori, soprattutto in ottica di factoring e gestione del rischio sistemico.
Le imprese, invece, tendono a limitarsi alla valutazione finanziaria dei clienti diretti. Solo in settori interdipendenti — come automotive o metalmeccanico — la valutazione della filiera viene presa in considerazione, spesso nell’ambito della funzione risk più che del credit management.
Una simile differenza emerge anche sull’analisi dei parametri ESG. Tutte le banche intervistate dichiarano di integrare nella valutazione del merito creditizio anche indicatori ambientali, sociali e di governance, mentre solo il 47% delle aziende include attivamente questi elementi nelle proprie decisioni.
Nelle imprese che li adottano, l’attenzione si concentra principalmente sulla governance, considerata più direttamente collegata all’affidabilità creditizia. Gli aspetti ambientali e sociali sono considerati soprattutto in chiave reputazionale o di compliance.
L’AI, in questo contesto, può rappresentare uno strumento utile per estendere il perimetro di analisi, rendendo accessibili anche alle imprese modelli di valutazione ESG e di filiera già diffusi nel settore bancario.
Fiducia, trasparenza, competenze: il futuro è ibrido
Se c’è un punto su cui aziende e banche concordano con estrema chiarezza, è che l’intelligenza artificiale non potrà — e non dovrà — sostituire il giudizio umano. Il suo valore risiede nella capacità di amplificare la lettura della realtà, non di prenderne il controllo. L’AI può migliorare l’accesso ai dati, accelerare i processi, rendere più oggettive le analisi, ma resta indispensabile una supervisione consapevole, critica e responsabile. Il vero cambiamento, allora, non è nella sostituzione, ma nell’integrazione: un nuovo equilibrio tra logica algoritmica e discernimento umano, tra velocità automatica e capacità di contestualizzazione.
Su questo tema, emerge una distinzione di sensibilità tra banche e imprese: le prime si mostrano generalmente più ottimiste, mentre le seconde adottano un atteggiamento più prudente. Il 40% delle aziende, ad esempio, teme che un’eccessiva automazione possa ridurre l’offerta di credito, privando il sistema di quella componente relazionale e qualitativa che spesso fa la differenza. Solo l’11%, invece, percepisce l’AI come un’opportunità per migliorare l’accesso e la trasparenza. Questo divario evidenzia quanto sia cruciale progettare modelli che non solo siano tecnologicamente efficaci, ma anche umanamente sostenibili.
Costruire un modello davvero ibrido significa prima di tutto investire nelle competenze trasversali: non solo sviluppatori e data scientist, ma anche credit manager, analisti e risk officer devono acquisire la capacità di leggere, interpretare e interrogare i modelli, comprendendo limiti e logiche. È un cambiamento culturale prima ancora che tecnologico, che coinvolge le organizzazioni a tutti i livelli.
Serve poi un’infrastruttura solida di trasparenza e tracciabilità, affinché i processi automatizzati siano comprensibili e verificabili, anche per chi non è “nativo digitale”. La qualità dei dati, la chiarezza dei modelli e la presenza di un presidio umano diventano elementi imprescindibili per garantire che le decisioni algoritmiche non siano opache, ma fondate su criteri interpretabili e condivisi.
Non si tratta di sostituire la relazione o l’intuizione, ma di affiancarle con strumenti in grado di estendere la visione, accorciare i tempi, ridurre l’incertezza. In altri termini, come una bussola che non prende il posto del navigatore esperto, ma ne amplifica la capacità di orientamento in contesti turbolenti.
Come Opyn, crediamo che il vero valore dell’AI emerga quando si innesta su un ecosistema di dati affidabili, modelli governabili e professionalità consapevoli. Solo in questo modo l’innovazione può diventare non solo più efficiente, ma anche più equa, inclusiva, aderente alla complessità delle imprese reali.
Il futuro del credit management non sarà algoritmico o umano: sarà ibrido, relazionale, responsabile. E la sfida sarà saper progettare — oggi — strumenti e strategie che riflettano questa nuova forma di equilibrio, dove la tecnologia non sostituisce, ma sostiene, e dove l’intelligenza artificiale diventa parte di un’intelligenza collettiva più ampia e più umana.