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Rodolfo De Laurentiis
Professore Di Diritto Dei Nuovi Media

Sommario 1. I fondamenti dell’economia digitale 2. Le microimprese e il digitale 1. i fondamenti dell’economia digitale I progressi delle tecnologie digitali e, successivamente, l’avvento e la diffusione di internet1 hanno modificato in modo sostanziale la società contemporanea e l’economia introducendo nuovi modelli di business fondati non più sugli assets tradizionali dell’economia capitalistica – capitale e forza lavoro-ma su elementi immateriali come le informazioni e, tra queste, con sempre maggiore importanza i dati personali. Un fenomeno - quello digitale - che inizialmente confinato alla produzione di prodotti destinati a convertire in formato digitale il segnale analogico di suoni e immagini, si è esteso in seguito ad ogni ambito della società, cambiando letteralmente il modo in cui le persone interagiscono, imparano, si divertono, lavorano. L’avvento delle tecnologie digitali ha trasformato le regole della società industriale, tanto da ridefinire il modello economico e sociale secondo nuove regole, quelle della “Società dell’informazione”. Espressione, questa, usata per la prima volta nel 1973 da Daniel Bell, ordinario di sociologia a Harward, che sta ad indicare una società che, giunta al culmine del processo di industrializzazione deve – per continuare a crescere - concentrare i propri sforzi verso la produzione non più di beni materiali bensì di servizi immateriali. L’informazione ha assunto il ruolo di risorsa strategica che condiziona l’efficienza dei sistemi divenendo fattore di sviluppo sociale ed economico, di crescita e di ricchezza culturale. Alla old-economy, tradizionalmente fondata sulla combinazione tra capitale e lavoro, negli ultimi anni si è affiancato un modello di sviluppo economico, in cui gli asset fisici diventano relativamente meno importanti, mentre sono predominanti le informazioni, quali strumenti di creazione di valore. Lo sfruttamento economico dell’informazione ha dato vita alla c.d. economia digitale, al cui interno sono ricomprese sia aziende, il cui modello di business è interamente basato sullo sfruttamento di asset intangibili, che vengono poi distribuiti agli acquirenti di tali beni in formato digitale, sia aziende che sfruttano modelli di business diversi, alcuni dei quali ancora legati alla produzione o alla distribuzione di beni tangibili. Il fenomeno in grado di ricondurre a parziale unità l’eterogeneità dei modelli di business su cui si fonda l’economia digitale è costituito dai c.d. big data. La diffusione dei social media e la crescente disponibilità di dati non strutturati, quali immagini, video e audio, provenienti da sensori, telecamere, telefoni cellulari hanno contribuito ad una disponibilità senza precedenti di informazioni in rapida e costante crescita in termini di volume. Ormai sempre più aziende fanno affidamento sui big data per aumentare la loro efficienza e guadagnare un sensibile vantaggio competitivo sui loro competitors. Il tasso di crescita dei dati generati è impressionante: secondo l’International Data Corporation (ICD), si stima che il mercato delle tecnologie e dei servizi big data crescerà con un tasso composto annuo del 22,6% dal 2015 al 2020, raggiungendo i 58,9 miliardi di dollari nel 2020, ad un ritmo di crescita pari a circa 6 volte quello del mercato ICT nel suo complesso. Google, ad esempio, controlla all’incirca due miliardi di pagine al giorno, processa 5 petabytes di dati ogni giorno e dispone di più di un milione di server sparsi a livello globale. Facebook, invece, con oltre 1,3 miliardi di profili attivi, riceve ogni giorno circa 140 miliardi di foto con circa 125 miliardi di tag di profili in 70 lingue differenti. Twitter, dal canto suo, con i suoi 271 milioni di utenti attivi, mensilmente processa all’incirca 500 milioni di tweet ogni giorno. D’altro canto, i big data rappresentano per le aziende un ottimo strumento in grado di fornire agli utenti finali la giusta informazione, influenzarli al momento giusto così da stimolarli all’acquisto. Si pensi, ad esempio, al successo di Netflix, che in breve tempo ha soppiantato il colosso del noleggio di prodotti home video Blockbuster, determinandone il fallimento, grazie alla opportunità, resa possibile da internet e dalla diffusione della banda larga, di offrire direttamente a casa dell’utente il servizio che in precedenza il consumatore era costretto a reperire, recandosi presso il punto vendita Blockbuster. L’innovazione digitale – che ha avuto un impatto molto più profondo sulla dimensione economica e sociale della nostra società più di quanto sia avvenuto nelle precedenti rivoluzioni industriali – è una tecnologia “orizzontale”, quasi “virale”, che si ibrida con qualsiasi cosa viene a contatto, muta geneticamente i mercati, i prodotti, le strutture con cui interagisce. L’economia digitale ha dato vita ad una serie di nuovi modelli di business, che, pur trovando un corrispettivo nelle attività tradizionali, si differenziano rispetto a queste per la maggiore efficienza garantita dalla perfetta implementazione delle più moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Le potenzialità economiche di internet hanno cominciato ad intravedersi nel momento in cui, attraverso la crescente diffusione della Rete2 tra gli utenti, è divenuto possibile per le aziende estendere la propria rete distributiva a costo zero, grazie alla possibilità di vendere i propri prodotti direttamente sul web. L’economia digitale ricomprende al suo interno fenomeni diversi, che condividono l’utilizzo delle tecnologie digitali per sviluppare modelli di business differenti.3 A fianco delle aziende che, già dotate di una rete distributiva, hanno semplicemente cominciato a vendere i loro prodotti anche su internet, sono così nate nuove imprese, del tutto prive di punti vendita fisici, la cui unica modalità di vendita era il negozio virtuale. A tale fase di sviluppo iniziale risale l’affermazione di uno dei principali campioni dell’attuale rivoluzione digitale: Amazon, fondata nel 1995 a Seattle da Jeff Bezos. Dopo aver iniziato come libreria online, l’azienda ha esteso la gamma di prodotti venduti praticamente ad ogni genere di bene commerciabile. Il suo successo si basa su un modello di business riconducibile alla old-economy, implementato, però, attraverso le tecnologie più moderne dell’economia digitale4 (in primis lo sfruttamento dei dati personali dei propri clienti), che le consentono di mantenere un vantaggio competitivo sulle altre aziende di e-commerce. Rispetto ai canali tradizionali di vendita, l’e-commerce5 offre notevoli vantaggi all’azienda, consentendo una netta riduzione dei costi di esercizio, legati all’affitto degli immobili, al personale di vendita, alla gestione del magazzino e delle scorte. Inoltre, i prezzi dei prodotti in Internet sono più convenienti rispetto a quelli dei negozi tradizionali, in quanto la vendita conta di minori passaggi distributivi. I vantaggi si estendono ad una maggiore efficienza: il negozio è sempre aperto, anche durante le festività e consente modalità di vendita inattuabili per i negozi fisici. Si pensi alla possibilità per l’azienda di modificare in tempo reale il prezzo dei prodotti in funzione della domanda. La catena di negozi di abbigliamento per bambino Cookie’s, ad esempio, modifica i prezzi ogni 15 minuti, analizzando quelli dei competitors con il fine di rimanere in cima alle classifiche di Amazon. Grazie alla maggiore efficienza, l’e-commerce ha sostanzialmente determinato il fallimento di alcuni canali distributivi, quali ad esempio le agenzie di viaggio, rispetto alle quali il commercio elettronico è in grado di offrire prezzi più competitivi, grazie alla nascita di siti che comparano in tempo reale le offerte dei singoli operatori. Per comprendere la portata del fenomeno dell’e-commerce bastano alcuni dati. Nel 2017, il valore del solo e-commerce B2C (business to consumer) mondiale ha raggiunto la quota di 2.290 miliardi di dollari; gli Stati Uniti e la Cina sono rimasti i mercati di maggiori dimensioni, al pari dei loro rispettivi colossi e-commerce, Amazon e Alibaba. In Europa, il valore dell’e-commerce è risultato essere di 530 miliardi di euro nel 2016, tenuto in piedi dal Regno Unito (con il 33% delle vendite europee), Germania e Francia. L’Italia è al settimo posto, con un valore nel 2016 pari a 22 miliardi di euro. I risparmi realizzati grazie ai prezzi inferiori praticati on-line e alla più ampia scelta di prodotti e servizi disponibili sono stimati in 11,7 miliardi di euro, ossia lo 0,12% del PIL europeo. Se il commercio elettronico rappresentasse il 15% del commercio al dettaglio e se gli ostacoli al mercato interno fossero eliminati, i risparmi per i consumatori potrebbero toccare i 204 miliardi di euro, ossia l’1,7% del PIL europeo. Le stime sull’impatto economico dell’industria digitale variano notevolmente in base al perimetro che delimita i confini dell’economia digitale. Una recente ricerca della società di consulenza Accenture ha stimato che, nel 2015, la quota di prodotto interno lordo riconducibile all’economia digitale è stata pari al 22,5%, destinata a raggiungere nel 2020 la percentuale del 25%.6 Nel 2006, eccettuata una sola azienda digitale, le più grandi imprese del mondo erano quelle di beni e servizi. Dieci anni dopo, le prime 5 aziende per capitalizzazione e fatturato sono digitali con una crescita esponenziale ed una moltiplicazione del loro valore. Solo per dare l’idea di quale enorme sviluppo ha prodotto il digitale, l’Apple in un momento della sua storia- ha superato la metà della capitalizzazione dell’intera borsa italiana. Purtroppo, l’enorme ricchezza prodotta dall’economia digitale è in mano a gruppi americani e cinesi: tra le prime 11 aziende, 6 sono americane, 5 sono cinesi. La prima presenza europea – una società tedesca- si trova dopo il ventesimo posto.7 In questo ambito, il nostro Sistema Paese presenta delle criticità. Ad esempio, il rapporto tra Pil e spesa per ricerca e investimenti è più basso rispetto ai nostri competitors. L’Italia si attesta a 1,3% rispetto al 2,2% della Francia, al 3% della Germania e al 2,1% della media europea. La nostra produttività oraria, negli ultimi 20 anni, è rimasta sostanzialmente identica mentre quella dei nostri competitors è cresciuta esponenzialmente. La buona notizia è che manteniamo una seconda posizione nella manifattura europea e che l’export hitech italiano è costantemente in crescita dal 2008. La produzione, quindi, di alta tecnologia italiana ha successo a livello mondiale. Il ruolo dell’innovazione e dell’alta tecnologia in Italia potrebbe essere uno straordinario volano per la produzione di ricchezza. Basti pensare che l’impatto di un aumento di un punto percentuale di Pil in investimenti in alta innovazione tecnologica produrrebbe un ritorno di 2,4% di ricchezza, investendo cioè 1 euro, il moltiplicatore strutturale ovvero il ritorno è di 2,4 euro. Se noi investissimo 1 euro nei settori cosiddetti tradizionali il ritorno sarebbe l’0,6. Abbiamo lo stesso risultato nella dinamica della produttività oraria dove l’investimento in alta tecnologia produce un ritorno del 3,15% contro l’0,55% dei settori cosiddetti tradizionali. Non solo il digitale è strategico per produrre ricchezza ma può rappresentare lo strumento per affrontare e migliorare gli altri settori dell’economia come i trasporti, la sanità, l’istruzione, la giustizia. La sfida digitale presuppone, però, un salto di qualità delle Istituzioni delle società liberale e una governance efficace e organica in grado di superare i problemi e le contraddizioni che essa reca in se. Essa richiede, cioè, organizzazioni efficaci- scuola, lavoro, impresa, pubblica amministrazione – e nuove realtà economiche, sociali, istituzionali se vogliamo evitare il pericolo di aumentare le ingiustizie e le diseguaglianze. 2. le microimprese e il digitale In Italia, una riflessione attenta e approfondita va fatta sulle microimprese - quelle con meno di 10 dipendenti- che rappresentano il 95% delle imprese italiane ed il 93,2% di quelle europee (18 milioni), con un tasso di occupazione, in Italia, pari al 47% di tutta l’occupazione privata non agricola ed il 39% in Europa. Esse rappresentano un sistema eterogeneo per struttura dimensionale - tra la più bassa in Europa - per la frammentazione, per il mercato di riferimento -per lo più regionale- e per la gestione prevalentemente famigliare. Un sistema non ancora in grado di cogliere tutte le opportunità derivanti dal digitale: il 95% possiede una sola connessione internet, il 33% non possiede un dominio internet (contro il 62% che ne possiede uno solo), il 72% non possiede una pagina Facebook o su altro social ed il 91% non effettua vendita dei propri prodotti e servizi via web.8 È sempre più evidente che solo le aziende che riescono ad avere consapevolezza dell’importanza dell’innovazione digitale ed a introdurla nei processi riescono a sopravvivere e a trarre vantaggi competitivi. In Italia, le microimprese - con un trend di nascita in aumento nell’ultimo decennio – hanno sostanzialmente una strategia di tipo difensivo, sono volte, cioè, alla difesa del proprio mercato di riferimento. Solo per una piccola percentuale di esse, a questo indirizzo, si accompagna un’azione più complessa tesa alla diversificazione del prodotto e dei servizi offerti, a penetrare nuovi mercati o ad attivare sinergie con altre imprese. Nonostante l’utilizzo del digitale consenta risparmi di tempo variabile da 6 a 70 ore mensili (secondo un’analisi del Politecnico di Milano), le microimprese rimangono senza servizi di e-commerce (91% del totale), senza piani di marketing e comunicazione online, che non si limiti ai semplici contenuti editoriali. Vi è, quindi, un tessuto economico composto di piccole imprese, che deve recuperare il tempo perduto attraverso la formazione e l’ausilio di consulenti tecnici, capaci di accompagnare queste realtà durante un processo di ammodernamento, di sviluppo, di adeguamento tecnologico. La crescita e la competitività delle piccole imprese passa necessariamente attraverso l’aumento delle competenze manageriali, finanziarie e quelle relative allo sviluppo digitale. A questo si deve coniugare una migliore accessibilità ai finanziamenti e alle sovvenzioni. In Italia il divario tra Nord e Sud caratterizza anche l’intero comparto delle microimprese. Le imprese meridionali, pur avendo beneficiato degli incentivi fiscali previsti dalle misure contenute in “Impresa 4.0”, hanno visto un impatto più limitato a causa delle condizioni territoriali pregresse, dei livelli locali di istruzione e innovazione. Stessa cosa è avvenuta per il credito di imposta per ricerca e sviluppo assorbito in quote maggiori dalle imprese del Nord (70% dei costi totali rispetto al 10% per le imprese meridionali). Probabilmente la realizzazione di ecosistemi innovativi, in cui far convergere la progettualità, le competenze e le professionalità dei diversi soggetti pubblici e privati -nell’ambito della programmazione strutturale europea- consentirebbe di colmare almeno in parte il gap territoriale raccordando le imprese con l’intera filiera dell’innovazione, dall’università al sistema pubblico, agli investitori, con un piano di investimenti organico e coerente ad obiettivi di lunga durata. Una maggiore pervasività dell’innovazione ed una maggiore consapevolezza della cultura digitale _ da diffondere in tutto il comparto delle microimprese – faciliterebbe l’acquisizione di nuovi mercati e la loro crescita dimensionale.

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